Festival d’arte: tutti dentro, purché ci sia il badge
di un osservatore poco distratto
C’era una volta il festival dell’arte come momento di riflessione collettiva, confronto autentico, scambio tra linguaggi. Oggi è diventato un grande contenitore di tutto e di nulla, un evento che somiglia più a un salone del mobile che a un’occasione di cultura. L’importante è esserci. O, meglio ancora, risultare “presenti nel programma ufficiale”, possibilmente con badge e foto mentre si ascolta un talk che nessuno capisce.
I festival si sono moltiplicati come galleristi in crisi: ce n’è uno per ogni disciplina, per ogni periferia, per ogni nuovo “territorio ibrido”. Tutti rigorosamente “internazionali”, anche quando si svolgono in tre sale comunali e con traduzione simultanea improvvisata da uno stagista volenteroso. Il programma è sempre lo stesso: letture, performance, laboratori, panel. Molti panel. Gente che parla, altra gente che parla mentre gli altri parlano, e artisti che si presentano con frasi tipo: “la mia ricerca parte dal concetto di liminalità del gesto”.
Il festival è un grande palcoscenico, ma non per l’arte: per chi la organizza. Il curatore diventa regista, l’artista un comparsa. I budget si diluiscono in ospitalità, trasporti e brochure stampate in carta riciclata. Il pubblico? Un mix di addetti ai lavori, parenti degli artisti, qualche influencer culturale e un paio di turisti smarriti, convinti di assistere a un evento folkloristico.
Per l’artista, il festival è una vetrina obbligata. Anche se non c’è cachet, anche se si deve pagare vitto e alloggio, anche se si viene convocati per “intervenire” in uno spazio che non ha nemmeno una presa elettrica. La parola magica è “networking”. Bisogna esserci, stringere mani, distribuire biglietti da visita (che nessuno conserverà), farsi fotografare accanto a qualche installazione. Tutto fa curriculum. Tutto fa CV.
E così il festival diventa un gigantesco carosello dell’arte contemporanea. Una ruota che gira sempre, dove l’unica cosa davvero immobile è l’opera d’arte, che nessuno guarda perché c’è da correre al prossimo incontro su “ecologia delle pratiche artistiche post-pandemiche”.
Alla fine del festival, l’artista torna a casa con un badge plastificato, un paio di foto e una citazione sul sito ufficiale. Nessuna vendita, nessun nuovo progetto, ma una sensazione di aver fatto parte di “qualcosa”. Qualcosa che non si capisce bene cosa sia, ma che — dicono — conti moltissimo.
E in effetti, conta. Conta per alimentare la grande illusione di sistema, dove tutti si applaudono a vicenda, mentre l’arte resta lì, sul fondo, a chiedersi se davvero ne valeva la pena.