Residenza d’artista: villeggiatura creativa per spiriti inquieti

di un osservatore poco distratto

Un tempo si parlava di botteghe. Poi sono arrivati gli atelier. Oggi vanno di moda le residenze d’artista: luoghi spesso sperduti tra colline, fabbriche dismesse o conventi ristrutturati dove, almeno in teoria, l’artista può riflettere, creare, confrontarsi, rigenerarsi. In pratica? Un po’ meno.

Il meccanismo è rodato: si pubblica un bando, si promette ospitalità, visibilità, a volte anche un piccolo rimborso, e si richiede in cambio “un progetto site-specific” che spesso non è altro che una decorazione contestuale, un intervento che “dialoghi col luogo”, ovvero che non dia troppo fastidio. Il selezionato parte con entusiasmo: zaino in spalla, sketchbook, pennelli, MacBook, GoPro e voglia di reinventarsi in mezzo a paesaggi bucolici o contesti industriali.

Appena arrivato, scopre che l’alloggio è spartano, il vitto è a carico suo, il “laboratorio” è un’aula scolastica vuota, e che nel programma sono previste “attività di coinvolgimento con la comunità locale”, che si traducono in laboratori per bambini, cene condivise e una mostra finale nella sala polivalente del comune, con buffet offerto da una cooperativa sociale.

Tuttavia, l’importante è esserci stati. Fotografarsi. Documentare. Pubblicare stories in cui si dipinge vicino al camino, si guarda il tramonto con aria assorta, si parla di “dialogo con il territorio”. Poco importa se il vero dialogo avviene su WhatsApp con gli amici rimasti in città. La residenza diventa un’esperienza estetica più che artistica, un modo per sentirsi parte di un sistema che in realtà chiede solo visibilità reciproca e conferme.

L’opera finale, qualunque sia, è quasi sempre secondaria. Un’installazione provvisoria, un collage con materiali del posto, una performance all’aperto con qualche abitante del luogo come comparsa. Tutto molto sensibile, tutto molto “in ascolto”. Poi si smonta tutto, si torna a casa e si aggiunge la voce “residenza artistica a [nome esotico]” nel curriculum.

E la selezione? Spesso si gioca su una call generica con centinaia di candidati: viene scelto chi ha un progetto sufficientemente astratto da non creare problemi, e magari anche un seguito social degno di nota. Perché oggi, si sa, la documentazione vale più dell’opera stessa.

Così la residenza artistica, da spazio di ricerca, diventa luogo di conferma identitaria, palestra di networking e piccolo traguardo da collezionare come una medaglia. Non si cerca più ispirazione: si cerca legittimazione. E l’arte resta un pretesto, come sempre più spesso accade.