Arte in hub: la fabbrica delle illusioni culturali
di un osservatore poco distratto
Una volta c’erano le gallerie. Poi sono arrivate le fondazioni. Oggi, l’arte si fa negli hub creativi, spazi polifunzionali dal nome bilingue, spesso ricavati in vecchi edifici industriali “riconvertiti” con vernice ecologica, neon fluo e qualche pianta sospesa in un barattolo. Benvenuti nel nuovo tempio della cultura contemporanea: lo spazio alternativo, dove tutto può succedere, tranne che un’opera venga davvero vista.
Coworking, laboratori, esposizioni, yoga, brunch, workshop, conferenze e concerti acustici. Il menù è sempre lo stesso: un fritto misto di eventi in cui l’arte visiva è il contorno, mai il piatto principale. Le opere vengono appese tra un tavolino da laptop e una macchina del caffè vintage. Le installazioni? Disposte tra una call su Zoom e una degustazione di birre artigianali. Il pubblico? Non guarda, passa. E scatta una foto, ovviamente.
L’artista viene invitato con entusiasmo: “È un’occasione per farti conoscere”, gli dicono. Tradotto: porta le tue opere, appendile da solo, paga se vuoi stampare qualcosa, e sii presente all’opening per sorridere ai curiosi. Magari qualcuno ti chiede il prezzo, giusto per far conversazione. Ma nessuno compra. Non è quello lo scopo. Qui l’opera è decorazione con pretese.
Il concetto è semplice: l’arte serve a dare una patina culturale a un luogo che, di artistico, ha solo la programmazione su Canva. Lo spazio si definisce “culturale”, “fluido”, “ibrido”, ma non ha né una direzione artistica seria né un criterio curatoriale. Tutto è evento, tutto è happening. Ogni cosa è esperienza — parola magica — anche se consiste nel bere un Negroni davanti a una scultura di carta pesta.
Il risultato? Un’estetica da mercatino intellettuale, dove ogni mostra è una scusa per l’aperitivo, ogni installazione un set fotografico. La cultura è liquida, certo, ma qui rischia l’evaporazione. Nessuna selezione, nessun approfondimento. Solo flusso, movimento, presenza. E se qualcuno osa chiedere “ma che tipo di arte ospitate?”, la risposta è una girandola di parole: “arte emergente, sociale, territoriale, relazionale, sostenibile, partecipativa”. Insomma, tutto e niente.
Nel frattempo, l’artista si convince di “essere entrato in un circuito”. Pubblica le foto, ringrazia lo spazio, tagga, colleziona esperienze. E si sente parte di un fermento. Peccato che, spesso, si tratti solo di una macchina di eventi che consuma l’arte come fondale, non come linguaggio.