Il Premio d’Arte (pagando, si vince)
di un osservatore poco distratto
C’è un momento preciso in cui l’aspirante artista, dopo qualche collettiva e una manciata di critiche copia-incolla, decide che è il momento di “andare oltre”. E cosa c’è oltre la collettiva? Il Premio d’Arte, ovviamente. Con tanto di bando, giuria e vincitori. L’illusione è irresistibile: partecipare, essere selezionati, magari premiati, e poi dire agli amici con aria modesta: “Ho vinto un concorso internazionale”. Il termine “internazionale” è sempre presente, anche se la mostra si svolge in un ex sala d’aspetto ferroviaria di un paesino della Bassa.
Ma come funziona davvero questo universo dei premi d’arte? Molto semplice. Si parte da un bando, redatto in un linguaggio solenne, quasi notarile: “la commissione è composta da importanti personalità del mondo dell’arte contemporanea”, spesso gli stessi curatori e critici che, guarda caso, organizzano la mostra. Poi c’è la quota di iscrizione: dai 30 ai 70 euro, in media. A cui spesso si somma la stampa dell’opera nel catalogo, l’affitto dello spazio espositivo, magari la cena di gala o la partecipazione al “premio del pubblico”.
La formula è collaudata: si raccolgono centinaia di candidature, si selezionano — ma non troppo — opere di vario tipo, si allestisce una mostra “etica e multidisciplinare”, e infine si assegnano premi a raffica. Uno “alla carriera”, uno “per la ricerca visiva”, uno “per l’originalità del linguaggio”, uno “per la poetica del gesto”. A volte anche uno “per la tecnica mista su supporto rigido con elementi evocativi”. Nessuno resta a bocca asciutta. Perché lo scopo non è premiare il migliore, ma rendere tutti (almeno un po’) vincitori.
Il vero premio è la sensazione di esserci. Il diploma, la foto con la giuria, la menzione nel comunicato stampa. Qualcuno incornicia l’attestato, altri lo postano su Facebook con un ringraziamento collettivo. Intanto, l’organizzazione incassa, il critico firma l’ennesimo testo, e il ciclo può ripartire. L’anno dopo, stessa sede, stessi criteri, nuovi partecipanti da spremere.
Certo, ci sono anche premi seri, assegnati da giurie competenti, senza obbligo di versamenti. Ma sono pochi. Silenziosi. Difficili da raggiungere. Mentre questi altri, quelli “a misura d’artista”, pullulano come funghi: basta pagare per partecipare, e partecipare è già una piccola vittoria.
E l’arte? Beh, l’arte è lo sfondo. L’arredo. Il pretesto. Ciò che serve a giustificare il meccanismo. Nessuno si chiede più se l’opera abbia qualcosa da dire: basta che sia in tema, che sia stampabile, che stia bene accanto alle altre.
Così il Premio d’Arte diventa uno specchio per l’ego, una moneta per la vanità. E l’artista, ormai abituato alla gratificazione automatica, non si chiede più perché crea. Si chiede solo: “Qual è il prossimo bando?”.