Il critico a gettone e il successo a chilometro zero

C’era una volta l’artista che lavorava in silenzio, spesso in povertà, consapevole che il giudizio sul proprio operato sarebbe arrivato col tempo, e non sempre in vita. Oggi, invece, l’arte sembra una corsa all’autoproclamazione, dove l’unico pennello che conta è quello che dipinge la propria immagine sui social, mentre si compila il bonifico al critico di turno.

Il nuovo artista — o meglio, il presunto tale — non cerca più ispirazione, ma legittimazione. Non crea opere, crea relazioni. L’importante è trovare un critico (rigorosamente “indipendente”, ma con tariffario alla mano) che lo sdogani con frasi altisonanti e affermazioni che paiono profondissime, salvo poi non dire assolutamente nulla. Siamo nel regno della “critica evocativa”, quella che sa annunciare rivoluzioni anche davanti a un’installazione di cucchiai incollati al muro.

Nel frattempo, proliferano le collettive “apri-tutto”, dove l’unico criterio di selezione è la disponibilità economica dell’artista. Spesso si finisce con lo sbarcare in qualche spazio polifunzionale di provincia, con mostra, buffet e catalogo patinato incluso nel prezzo. Il tutto condito da un testo critico preconfezionato, che parla di “dialoghi tra materia e spirito”, o “linguaggi che destrutturano la percezione del reale”, come se bastasse il gergo a fare l’opera.

Risultato? Una montagna di carta stampata, CV gonfi come panettoni e artisti convinti di essere “in carriera” solo perché hanno pagato per esserlo. Il sistema dell’arte, da processo selettivo, è diventato un’autocertificazione collettiva. Ma senza pubblico vero, senza mercato, senza memoria.

In fondo, basterebbe un po’ di sano silenzio, qualche “no” in più, e l’arte — quella vera — tornerebbe forse a parlare da sola.

di un osservatore poco distratto