Il critichese:“Il linguaggio incomprensibile come salvagente”
Quando il critichese serve a nascondere il vuoto
“L’opera indaga la frizione percettiva tra spazio e linguaggio attraverso un lessico materico che si fa testimonianza visiva della memoria ambientale.” Ecco una frase tipo, che si può leggere in qualsiasi testo critico contemporaneo. Una frase che non dice niente, ma sembra dire tutto.
Benvenuti nel regno del critichese: quel linguaggio volutamente oscuro, pieno di concetti astratti, costruzioni ermetiche, termini mutuati dalla filosofia postmoderna, che ha un solo scopo: impedire di capire.
Perché dove non c’è chiarezza, non c’è possibilità di giudizio. E dove non c’è giudizio, tutto è accettabile.
In questo contesto, l’artista che vuole sentirsi legittimato si adegua. Impara il codice. Scrive testi d’artista che sono piccoli manifesti metafisici: “La mia pratica si struttura come decostruzione narrativa di un’intimità situata tra corpo e paesaggio relazionale.” E guai a chiedergli cosa significa.
Perché il senso non è importante. L’importante è l’effetto. Se suona complesso, allora funziona. Se disorienta, allora affascina. Se confonde, allora convince.
Il paradosso è evidente: l’arte nasce per comunicare qualcosa attraverso la forma, ma finisce prigioniera del linguaggio che finge di spiegarla. E chi osa dire: “non ho capito”, si autocondanna all’esclusione.
Non è l’opera ad essere confusa, sei tu a non essere “abbastanza dentro il contemporaneo”.
Così, nei cataloghi e nei comunicati, si moltiplicano i testi che sembrano generatori automatici di parole. Ogni opera è “site-specific”, ogni gesto è “urgente”, ogni segno è “in bilico tra astrazione e presenza”. Tutto è potenzialmente interpretabile. Tutto è intenzionale. Tutto è giustificabile.
Ma dietro questo muro di parole, spesso non c’è nulla. O c’è poco. Un oggetto debole, un’idea vaga, una ripetizione già vista. E allora il testo serve da scudo. Un paravento semantico che protegge l’artista dal confronto diretto con il pubblico.
Il critico che scrive in questo modo non vuole spiegare: vuole sedurre. L’artista che si esprime così non vuole condividere: vuole elevare. Entrambi hanno paura della semplicità, che è percepita come banalità. Ma non è così.
Chi lavora davvero nell’arte sa che la chiarezza non è un tradimento della complessità, ma la sua conquista. Sa che spiegare bene non significa semplificare, ma rispettare chi ascolta. Sa che un’opera forte può reggere anche una frase semplice: “Ho fatto questo perché sentivo che era giusto.”
Ma oggi, nel mondo delle mostre istantanee e delle carriere accelerate, vince chi parla in codice. Perché un linguaggio che non dice nulla permette di dire tutto. E così, il vuoto si riempie di parole. Tante, bellissime, inutili.