L’arte concettuale che concetto non è

Quando basta una storia ben confezionata per vendere il nulla.

C’è un equivoco che da decenni inquina il discorso sull’arte contemporanea: l’idea che il concetto basti. Che un’idea, una spiegazione, una teoria ben articolata possano sostituire l’opera. È l’arte concettuale ridotta a caricatura, dove tutto è concesso, purché ci sia dietro una storia, una filosofia, un’intenzione. E così, la realtà si riempie di oggetti banali, trovate visive deboli, installazioni posticce. Tutte ammantate di profondità.
L’opera può essere una sedia capovolta, una banana fissata al muro, una pila di scatole. Ma non bisogna fermarsi alla superficie. C’è sempre un comunicato che chiarisce: quell’oggetto non è ciò che sembra, è un’indagine. Sul tempo, sul corpo, sulla fragilità, sul trauma, sulla società liquida. Il pubblico, confuso, resta in silenzio. Nessuno vuole sembrare ignorante. Si annuisce, si fotografa, si condivide.
Il vero problema non è l’arte concettuale in sé, che ha una storia seria e autori grandissimi, da Kosuth a Pistoletto. Il problema è l’uso scorretto del “concetto” come scudo. In mancanza di qualità visiva, formale, materiale, si esibisce la narrazione. Si investe tutto nel testo, nel titolo, nel comunicato. L’opera diventa un pretesto. E l’artista un comunicatore con doti di copywriting.
Questo tipo di arte è pensata per i vernissage, non per i musei. Funziona in foto, meglio ancora se in video. Attira l’attenzione perché sorprende, ma poi svanisce. Non resta. Non sedimenta. Non ha bisogno di essere riguardata, solo di essere condivisa. E in questo senso, è perfettamente funzionale al nostro tempo. Ma non per questo è buona arte.
Chi lavora davvero con il concettuale sa che l’idea non basta. Deve esserci un rigore esecutivo, una coerenza tra pensiero e forma, una profondità che si manifesta anche nella scelta di non fare nulla. Perché anche il nulla, se ben costruito, può essere potente. Ma quando il nulla è solo assenza, distrazione, gioco furbo, allora si è fuori dal campo dell’arte. Si è nel teatro della trovata.
L’arte concettuale autentica mette in discussione, fa riflettere, apre domande. Quella finta, invece, chiude il senso dentro una parafrasi: ti dice cosa pensare, come reagire, che lettura avere. Non invita a vedere: ti dà già la didascalia.
E così il pensiero si spegne nel rumore. Il concetto si consuma nella semplificazione. E il pubblico, sempre più passivo, si accontenta di un’idea raccontata, anziché cercare un’esperienza vissuta. Ma l’arte, quando è vera, non ha bisogno di essere spiegata. Ha bisogno di essere guardata. E capita. E forse, qualche volta, anche rifiutata. Ma mai tradotta in slogan.

un osservatore poco distratto