“Il vernissage: la sagra dell’ego (lontano dall’arte)”
C’è un momento preciso in cui l’arte sparisce. Succede all’inaugurazione. Il vernissage – quel rito collettivo che dovrebbe celebrare il lavoro di un artista – si è trasformato ormai nella sfilata degli ego. Non conta più cosa c’è appeso alle pareti, ma chi c’è davanti. L’opera diventa pretesto. Il resto è coreografia.
I professionisti dell’apparire
Arrivano puntuali, vestiti con un’aria casual studiatissima: un cappello troppo grande, occhiali da intellettuale anche al tramonto, un dettaglio vintage preso dal fondo dell’armadio. Parlano a voce troppo alta, usano parole come “trama concettuale”, “tensione segnica”, “gestualità del supporto”. Non hanno visto nemmeno mezza opera, ma si comportano come se fossero curatori della Biennale.
I collezionisti da aperitivo
Sguardo da intenditori, ma occhi sempre in cerca della telecamera o del fotografo di turno. Commentano tutto con frasi impersonali tipo “interessante”, “molto attuale”, “c’è ricerca”, senza mai sbilanciarsi, che non si sa mai. Vogliono essere visti, riconosciuti, accreditati. Non cercano arte: cercano relazioni, contatti, la possibilità di dirti “sono stato anch’io a quella mostra”.
Gli “alternativi di professione”
Vestiti fuori luogo per sentirsi dentro il sistema. Gonne patchwork, giacche destrutturate, pettinature che sfidano la legge della gravità. Ogni loro gesto è pensato per apparire fuori dagli schemi. Il paradosso? Sono più conformisti degli altri. Tutti uguali nel voler essere diversi. Il loro sguardo non cerca le opere, cerca l’approvazione reciproca. Un club esclusivo, ma senza contenuto.
Chi cerca “quello giusto”
Uomini e donne che vagano tra i bicchieri di prosecco con lo sguardo da radar. Non sono lì per l’arte, ma per incontrare il curatore, il gallerista, l’artista famoso, il critico potente. Attaccano discorso con chiunque sembri “qualcuno”. Usano la mostra come pretesto per legittimarsi socialmente, per dire di esserci stati, per sentirsi parte di qualcosa.
E l’arte?
È lì, appesa alle pareti. Zitta, dignitosa, ignorata. Nessuno la guarda davvero. Al massimo si fotografa una volta, inquadrata male, per postarla con hashtag come #culture #artlover #vernissage. Ma la verità è che nessuno la considera per quello che è: un’opera da guardare, da ascoltare in silenzio, da vivere con tempo e attenzione.
I visitatori veri arrivano dopo
Il giorno dopo, o quello dopo ancora, quando il chiacchiericcio si è spento e il vino è finito. Entrano in punta di piedi. Non postano niente. Si fermano davanti a un quadro anche dieci minuti. Non si giustificano. Non spiegano. Guardano. Sentono. Pensano. Sono quelli che l’arte la amano davvero. E che non hanno bisogno di essere visti mentre lo fanno.
Conclusione:
Il vernissage è diventato un evento sociale, non un momento culturale. Un teatro dell’ego dove si recita la parte dell’appassionato d’arte per ottenere attenzione, visibilità, validazione. Ma l’arte vera non ha bisogno di rumore. Chi la cerca, lo fa lontano dalla folla. Nel silenzio, nello sguardo, nel tempo speso davanti a un’opera. Lì, e solo lì, succede davvero qualcosa.