Il curatore-gallerista in “campagna”
Quando la galleria diventa pretesto

Nei piccoli centri, talvolta, nascono gallerie aperte da chi non ha una solida preparazione artistica, ma possiede un locale da mettere a reddito. Questi “curatori di provincia” parlano più di “trend” o di “mercato globale” che di linguaggi espressivi: consigliano artisti in base alle opportunità economiche, non alla forza delle opere. Dietro il desiderio di essere considerati “intenditori” si intravedono obiettivi che vanno oltre la passione per l’arte: costruirsi un seguito, cementare rapporti, ampliare la propria rete di conoscenze con ogni vernissage.

Così, il vernissage diventa uno spettacolo calibrato: brindisi offerti da sponsor locali, presentazioni obbligate di politici di quartiere, hashtag mirati a creare “engagement” più che a promuovere la ricerca visiva. La qualità dell’allestimento passa in secondo piano; ciò che importa è riempire le sedie, ottenere foto ben taggate e lasciare l’impressione di essere un centro culturale in ascesa.

I gusti espressi da questi curatori-galleristi non sono mai davvero personali, ma dettati dalle mode del momento: se il catalogo di una rivista celebra l’informale, ecco entrare in mostra astrattismo macchiettistico; se il minimalismo regna nelle fiere internazionali, la sala principale si trasforma in un esercizio di superfici spoglie. L’arte non è più un viaggio di scoperta, ma un prisma che riflette il riflesso dell’ultimo catalogo scaricato.

Dietro l’apparente cerimonia culturale si nascondono intenzioni diverse: alcuni cercano semplicemente di attirare clienti, altri di rafforzare legami con figure di potere locale, altri ancora di usare la “cultura” come etichetta per progetti personali, che vanno dal lancio di un’attività commerciale al tentativo di guadagnare visibilità sociale, o anche di possibili incarichi nelle amministrazioni comunali. In tutti i casi, l’idea di fondo è la stessa: l’arte diventa un pretesto per costruire un’immagine, anziché un dialogo autentico con lo spettatore.

Per l’appassionato vero, queste gallerie sono uno specchietto per le allodole: promettono occasioni, ma raramente offrono crescita. Mettono in vetrina nomi ricorrenti, perché è più facile convincere un amico a esporre che cercare nuovi talenti. E così si consolida un circuito autoreferenziale, dove i “successi” si misurano in selfie ben taggati sui social, non in critica seria o in percorsi di approfondimento.

L’arte, quando è usata come strumento di marketing personale, perde la sua funzione essenziale: non è più occasione di confronto, ma semplice sfondo per selfie, stretta di mano e discorsi di circostanza. Le pareti rimangono mute, intrappolate nel gioco di ruoli, mentre il vero pubblico, quello che cerca un’esperienza di senso, rimane ai margini, in attesa di uno spazio dove l’opera non sia un pretesto, ma l’unico protagonista.