Mostre collettive: la sagra dell’ego artistico
di un osservatore poco distratto
Un tempo si diceva che l’arte è condivisione. Oggi si dice che l’arte è “partecipazione”, ma in realtà è solo aggregazione forzata in vista di una mostra collettiva, preferibilmente in spazi improbabili, con titoli ambiziosi e curatori entusiasti che firmano testi pieni di parole come “orizzonte”, “transito”, “interazione” e “nuova sensibilità visiva”.
La collettiva è il nuovo battesimo dell’artista emergente. Più che un’occasione di confronto, è una specie di raduno terapeutico, una fiera dell’autopromozione. Si parte da un bando, spesso generico come una pubblicità di detersivi: tema libero, formato libero, libertà assoluta, purché si versi la quota. Da lì in poi, il processo è semplice: invii le immagini, compili il modulo, alleghi la bio (meglio se in terza persona, fa più professionale), paghi, e sei dentro.
Il curatore — o meglio, il coordinatore dell’evento — ti scrive ringraziandoti per l’interesse e ti promette visibilità, contatti, e magari anche un “percorso di crescita artistica”. Tu intanto ti prepari: recuperi le opere, paghi l’imballaggio, spedisci. Il vernissage è in un luogo “alternativo”, che in realtà è un ex negozio riconvertito, con luci fredde e pareti che odorano ancora di stucco fresco.
La serata di apertura è un rituale già scritto: si brinda con prosecco caldo, si ascoltano presentazioni interminabili, si stringono mani sudate e si raccolgono complimenti svogliati. Gli artisti si aggirano come galli in un pollaio d’autore, osservandosi con diffidenza, facendo domande solo per parlare di sé. Nessuno guarda davvero le opere, tutti cercano qualcuno che possa servirgli in futuro: un altro curatore, un giornalista, un gallerista distratto che passi “per caso”.
Poi c’è il catalogo. Sempre incluso nel pacchetto. Un oggetto importante, più importante dell’opera stessa. Contiene foto mediocri, testi generici, e soprattutto: il tuo nome stampato accanto ad altri venti. “Presente alla mostra collettiva X” diventa voce fissa nel curriculum, seguita da un asterisco invisibile che dovrebbe recitare: “previo versamento di € 280”.
Finita la mostra, resta poco. Forse un post su Facebook, qualche storia su Instagram, un’altra riga nel CV e tanta polvere sulle cornici. Eppure, l’artista ci crede. O almeno ci spera. Perché ogni collettiva è un piccolo rito iniziatico, una promessa implicita di qualcosa che verrà. Ma che, di fatto, non arriva quasi mai.
In fondo, la mostra collettiva oggi è come una sagra di paese: c’è posto per tutti, ognuno porta la sua specialità, e alla fine si torna a casa un po’ sazi e molto illusi.