Dal disegno sul tovagliolo alla collettiva: nascita di un artista da salotto

di un osservatore poco distratto

Succede spesso, più spesso di quanto si ammetta: lui (o lei) è in pensione da poco, ha tempo libero, figli grandi, qualche acciacco, e una voglia sottile di sentirsi ancora utile, creativo, stimato. Un giorno, mentre sistema delle vecchie carte o si cimenta con un acquerello ispirato da una foto su Pinterest, realizza un piccolo disegno. Nulla di epocale, ma sufficiente per mostrarlo con una punta di pudore a un’amica o alla sorella.

E qui avviene il primo clic dell’ego artistico: arriva la fatidica frase, pronunciata con sincera indulgenza — “Ma che bravo! Ma tu sei un artista!”. In realtà, quella frase nasce per affetto, per incoraggiamento, per tenerezza verso l’età o la timidezza. Ma lui ci crede. Eccome se ci crede.

Spinto da quella carezza verbale, l’aspirante artista comincia a guardarsi attorno. Entra in una cartoleria, compra blocchi da disegno, pastelli, tempere. Scopre l’esistenza dei “colori acrilici”, e si sente già a metà strada tra Kandinsky e Bob Ross. È in quel momento che, per un misterioso meccanismo sociale, entra in contatto con un pittore di modesta levatura, spesso figura mitologica di paese, presente a ogni evento culturale locale, autore di paesaggi seriali e nature morte in cornici dorate.

Il pittore, abituato a riconoscere in ogni curioso una potenziale fonte di reddito, si entusiasma: “Hai un tratto naturale. C’è stoffa qui, bisogna solo lavorarci su”. Così inizia il corso. A pagamento, ovviamente. Ma non è solo il corso: ci sono i materiali “professionali”, le tele “giuste”, i pennelli “serie oro”, le mostre “didattiche”, i viaggi pittorici, gli stage, i workshop, e via dicendo. Un’economia fiorente, alimentata dall’aspirazione e dalla vanità.

Dopo qualche mese, arriva il premio: “Potresti partecipare a una collettiva. Sei pronto.” Lusingato, il neofita accetta. Non sa che quella collettiva costa 300 euro, che la sua opera verrà appesa vicino a un mandala ricamato con bottoni e a una testa di cavallo in cartapesta, e che l’unico vero criterio di selezione è la puntualità del bonifico.

Ed ecco la seconda investitura: il critico di turno. Sguardo assorto, sciarpa svolazzante, linguaggio fumoso. Dopo aver osservato brevemente le opere, stila un testo che parla di “traccia autobiografica”, “forza del segno” e “poetica della memoria”, valido per chiunque e riutilizzabile all’infinito. L’aspirante artista, leggendo il proprio nome accostato a tali concetti, si commuove. Ce l’ha fatta. È davvero un artista.

Da lì in poi, tutto diventa inevitabile: nuove mostre, nuovi corsi, nuove “call”, altri critici, altri cataloghi (rigorosamente da comprare), e un cassetto sempre più pieno di attestati, articoli, stampe, cartoline. L’arte, quella vera, rimane un po’ sullo sfondo. Ma chi se ne importa? Ora lui espone. Ora lui è “riconosciuto”.

E tutto era cominciato da un disegno, da una frase gentile, da una domenica pomeriggio troppo tranquilla. Così nascono molti artisti contemporanei: non per vocazione, ma per consumo.

Chi sono (chissà chi lo sa)

Mi chiamo Antoninos Kilosakys. È un nome di fantasia, certo, ma neanche troppo: nasce da quella domanda che ognuno, prima o poi, si pone guardandosi allo specchio — “Chi sono? Chissà chi lo sa”. Io non ho mai trovato la risposta definitiva. Ma nel dubbio, mi occupo di grafica e comunicazione visiva. E nel tempo, tra un catalogo e una campagna pubblicitaria, ho scoperto che ciò che amo davvero sono tre cose: l’Arte, la Lettura e la Scrittura. Scrivere, in particolare, mi piace più che parlare. La parola scritta è più onesta, meno incline ai fraintendimenti, più difficile da rimangiare.

In tanti anni di lavoro nel mondo dell’arte — quello vero, fatto di stampa, cataloghi, mostre, progetti editoriali — ho visto passare sotto i miei occhi centinaia di opere e, peggio ancora, centinaia di testi critici. Testi che dovrebbero spiegare l’opera e invece spesso la nascondono dietro una nebbia di parole altisonanti, concetti stiracchiati, metafore tirate per i capelli. Testi che ti fanno passare la voglia di guardare l’opera, perché a leggerli sembra che ogni artista sia un genio incompreso, e ogni pennellata una rivoluzione linguistica. Ma poi apri gli occhi, guardi il lavoro, e ti accorgi che no — non basta una critica ben scritta a fare un artista.

È da qui che nasce questo progetto: una piccola, personale guerra all’improvvisazione artistica e alla compiacenza critica. Un tentativo di raccontare, con un tono sarcastico ma serio, i meccanismi che regolano oggi il sistema dell’arte contemporanea. Un sistema dove tutto è possibile, dove tutti sono artisti, purché paghino la quota giusta, si affidino al critico giusto, partecipino all’evento giusto.

Io, personalmente, non mi definisco artista. Altri lo fanno, ma a me non piace. Mi sento piuttosto un artigiano dell’arte, uno che lavora con le mani e con la testa per rendere visibile ciò che, a volte, l’arte dimentica: il buon senso, il rigore, la forma.

Questo spazio è il mio modo di reagire. Di raccontare quello che vedo, senza filtri. Non per offendere, ma per risvegliare. Perché se l’arte ha ancora un senso, forse comincia proprio da qui: dal dire le cose come stanno.

Sopra: Rivisitazione in stile Burri/Klee
Sotto: Rivisitazione in stile Emilio Vedova/Kandisky